Agricoltura industrializzata?

I sistemi intensivi sono utili all’agricoltura oppure sono utili alla finanza? 

Il consumatore viene garantito da questi nuovi sistemi? 

Lungi da me essere lontano dalle novità e dalle migliorie per vivere meglio, mangiare bene, curarsi  ed essere sani. Allungarsi la vita insomma.

Quindi non sono mai stato diffidente verso le tecnologie e le novità nei processi produttivi ma a tutto c’è un limite e tra poco vi dirò il motivo del mio limite.

Confermo inoltre, con questo mio podcast, che non rispondo ai canoni classici del conservatore che si erge a difensore del passato e del vecchio ma non credo che tutte le nuove tecnologie siano necessarie al nostro comune interesse o meglio ancora al nostro benessere.

Non so se avete visto in questi ultimi tempi quelle distese di alberelli alti non più di 1 m, incartati alla base con uno Shelter di colore bianco, con un tubo nero che li unisce come una catena per prigionieri in fila verso l’esecuzione.

Alberelli distanti sul lato corto poche decine di centimetri mentre sul lato lungo sono distanti più o meno 1 m. 

Quando li ho notati per la prima volta ho avuto un’impressione negativa e sono stato colto da una depressione, sembravano un cimitero di guerra. 

Il cimitero delle piante spagnole.

Ma come sempre mi sono impegnato nella ricerca delle motivazioni non emozionali e ho cercato la giustificazione  che ha spinto, o vuole spingere, verso quella direzione l’agricoltura.

Non solo negli uliveti ma anche in altre coltivazioni quali il bambù, i frutteti e finanche nella coltivazione della quarta gamma. Produrre, produrre e ancora, produrre questo è il motto non occupandosi più dei cicli di vita della nostra madre terra.

Io conosco la coltivazione dell’uliveto poiché mi impegno nel curarli per avere un olio buono e di qualità e nel contempo avere un ambiente sostenibile, sano e naturale.

E proprio perché conosco gli uliveti posso parlare della loro coltivazione e accennarvi in particolare della distorsione della coltivazione intensiva.

L’impianto intensivo ha bisogno di grandi capitali iniziali, spesso chi investe sono gruppi industriali che pensano alla quantità a discapito della qualità. Il piccolo o medio agricoltore non potrà mai entrare in competizione con i grandi gruppi. Al massimo possiamo, noi piccoli, scimmiottare per poi soccombere. Addio al km zero, all’agricoltura responsabile e sostenibile e soprattutto sana.

I macchinari per lavorare nei grandi campi intensivi sono costosi e hanno bisogno di grandi investimenti e quindi la finanza dei gruppi industriali vincerà anche dopo la prima installazione dettando i prezzi della lavorazione, dei conto-terzi e che utilizzerà manodopera senza specifiche conoscenze attirando disperati a basso costo dal resto del mondo.

Sulla produzione a pieno regime vi sono interpretazioni diverse ma resta sicuramente il principio che dopo 10-15 anni l’impianto va rifatto con un altro investimento notevole. Il consumismo dell’agricoltura.

L’uso continuo di acqua e di fertilizzazione chimica porteranno in maniera scellerata all’uso indiscriminato delle fonti, dei pozzi, e di tutte le forme di raccolta di acqua. In Italia come nel resto del mondo già stiamo assistendo a segni di desertificazione con delle grandi siccità estive e alluvioni o piogge torrenziali invernali. Acuendo ancor di più i danni del cambiamento climatico.

La concimazione continua, assidua e ossessiva, inoltre, è un dramma per la nostra terra non solo perché porta all’impoverimento, allo sfruttamento, alla abolizione graduale della biodiversità ma rappresenta anche un danno maggiore per la nostra tavola, per il cibo che ingeriamo.

L’impianto intensivo anche dal punto di vista commerciale è un azzardo il prodotto finale diventerà un olio comune, senza caratteristiche specifiche e senza predominanti. Senza una storia che racconta di centinaia d’anni di lavorazioni, di persone, di sudore e di agricoltori.

Alberelli senza un’anima.

Questa strada ci condurrà al tracollo e all’abbandono dei piccoli produttori, del frantoio di qualità, della conta precisa dell’acidità e dei polifenoli. La qualità dell’olio prodotto in Italia sarà come quella spagnola, tunisina o messicana e nel frattempo saremo solamente divenuti una goccia in un mare di olio uguale.

Molti mi dicono: la politica dei programmi europei, la politica delle regioni verso i PIF (Progetti di Filiera Integrata) sulla coltivazione intensiva, purtroppo anche in regioni a vocazione altamente specifica (IGP, DOP ecc), è sempre più presente e tu ne parli male? Rispondo in maniera secca e scorretta in agricoltura i soldi  dati per progetti europei o nazionali non sono dei contadini e dei braccianti ma a tutto ciò che vive intorno all’agricoltura.

Noi siamo solo dei passa soldi. A chi? A venditori di macchine agricole sempre più performanti, vivai specializzati per il ricambio delle piante e a concimazioni spinte.

NO BASTA!!! NO GRAZIE!!!

Condivido infine la battaglia che Marty Spence, un piccolo agricoltore americano che sta conducendo dal basso una rivoluzione agricola per una nuova agricoltura. Dobbiamo invertire la nostra rotta, dalle grandi monocolture intensive, trattate con prodotti chimici e spreco d’acqua ad una agricoltura di prossimità datata sulla sostenibilità e sulle connessioni con il territorio di utilizzo.

In un prossimo Politicamente Scorretto discuteremo di Marty e parleremo della sua mission di agricoltura organica, bio-rigerneratrice come risposta al cambiamento climatico e al consumismo di un bene primario come la terra.

Vorrei e voglio solo un’agricoltura di qualità, di sostegno alla nostra terra e alla nostra vita, di formazione dell’uomo al centro del lavoro e delle decisioni. Un’agricoltura fatta di aggregazione, di mutualità e di ritrovare lo spirito dell’alimento. 

Un’agricoltura buona, lenta e bella anche da vedere. Una crescita della biodiversità, della specialità che aiuta la terra e l’acqua che non c’è più.

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Politicamente Scorretto pubblicherà un podcast audio ogni settimana il lunedì alle 17 su temi di attualità.

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